Istituto Ricci HomePageLa fine del manicomio
N E W S C O N T A T T I R I C E R C A L I N K S F O R U M

  <- INDIETRO

 

La fine del manicomio:
un'occasione mancata?

Tommaso Losavio

letto al convegno "Contenere, curare la follia", organizzato da AIPsi e ASL RM E,
 S. Maria della Pietà di Roma il 27.11.04.

 

La fine del manicomio: un’occasione mancata?

La fine del manicomio avrebbe dovuto rappresentare un’occasione irrepetibile per un’innovazione non solo sul piano dell’ingegneria e dell’architettura istituzionale (i nuovi servizi a centralità comunitaria) ma anche e soprattutto come rottura definitiva con quei modelli culturali ed assistenziali che per tanti anni avevano sostenuto ed alimentato quella istituzione finalizzata alla cura della follia, riconosciuta come malattia.

L’aspetto centrale della pratica di un servizio di salute mentale di comunità doveva essere:

  1. "il prendersi cura" nel suo svilupparsi nell’incontro tra il tempo del paziente e il tempo dei suoi curanti,
  2. l’attenzione a cogliere non solo la malattia e i suoi sintomi come fenomeno, ma i diversi momenti e le diverse forme dell’esistenza-sofferenza del paziente
  3. i molteplici rapporti che legano il paziente alla sua storia ed al suo contesto sociale.

Le condizioni operative prima che organizzative dovevano ricercarsi:

  1. nel tempo della cura (il tempo della domanda a volte tumultuoso, altre volte lentissimo e sorprendente, contrapposto al tempo del setting della risposta il più delle volte rigido e burocratico);
  2. nella dimensione dell’asimmetria del rapporto (la consapevolezza del dislivello di potere che separa l’operatore dal paziente, specie dal paziente più grave;
  3. nella consapevolezza dell’arbitrarietà dell’uso di conoscenze, parziali e relative, spesso assunte come totali ed assolute, e di competenze provvisorie;
  4. nella tendenza a stabilire la relazione con il paziente sulla reciprocità e sull’affermazione della reciproca soggettività come alternativa all’oggettivizzazione, più abituale, in qualsiasi rapporto tra curante e curato.

Il prendersi cura doveva essere anche alternativo a nuove forme di istituzionalizzazione, un metodo di lavoro che, in assenza di istituzioni totali, riuscisse a:

  1. confrontarsi anche con problemi apparentemente insolubili;
  2. realizzare un rapporto di cura collocato nella prospettiva, costantemente e tenacemente perseguita, "dell’esclusione dell’esclusione"
  3. attribuire, o a restituire, con modalità concrete alla sofferenza del curato (ed al modo con il quale viene espressa) il diritto di appartenere all’universo del senso.

Nella pratica della deistituzionalizzazione per il superamento dell’ospedale psichiatrico abbiamo imparato a ripercorrere a ritroso la trama dei pregiudizi di cui era intessuta la carriera dell’internato e a non attribuire tutto il comportamento dell’internato, i suoi atti, le sue parole, i suoi desideri alla malattia mentale. Era la sospensione di giudizio usata da F.Basaglia, la messa tra parentesi della malattia, l’epoché secondo Husserl.

Tutto ciò può realizzarsi, forse, nella ricerca tendenziale, e mai completamente realizzabile, di ciò che emerge in quanto tale, non in quanto essenza ipotizzata ed arbitrariamente interpretata, né in quanto categoria predefinita.

Prendersi cura, quindi, di quella esistenza e di quella sofferenza così come si presentano e si dispongono nel loro essere nel mondo e nel mondo di quella relazione.

Tutto questo per qualcuno ha voluto significare, e significa ancor oggi, "la negazione" della malattia.

Ed infatti, per esempio, per giustificare il modello neo-istituzionale ripresentato non solo dalle proposte di legge di contro-riforma, ma anche dalle pratiche di molti servizi, l’irrecuperabilità del malato di mente viene ancora utilizzata per riproporre la riabilitazione come intrattenimento, nel senso più letterale del termine ma anche come tentativo di normalizzazione e di controllo sociale, indipendentemente dalle tecniche usate e in rapporto più stretto con lo stile di lavoro degli operatori e con la "politica" di salute mentale adottata dal servizio.

Certamente si può fare riabilitazione in modi molto diversi tra loro: ad una discreta riabilitazione sociale intesa come recupero e/o apprendimento di competenze sociali non necessariamente corrisponde l’acquisizione di una reale e concreta capacità contrattuale intesa come rapporto d’interdipendenza paritaria e come rispetto e valorizzazione della diversità rappresentata dal paziente. Spesso, al contrario, l’intervento riabilitativo, integrato quanto si voglia, valutato e supportato dalle tecniche più in voga del momento, ha come finalità generalmente non confessata e spesso neppure consapevole, di indurre e mantenere dipendenze che più facilmente possono garantire forme di controllo sociale anche per lunghissimo tempo.

L’obbiettivo, condiviso dal paziente, dagli operatori ma anche dai famigliari e dal contesto sociale di appartenenza, di conquistare un pieno diritto di cittadinanza, che possa esercitarsi concretamente ed esprimersi nelle forme originali proprie del soggetto, dovrebbe essere rappresentato dal reciproco riconoscimento e del reciproco rispetto piuttosto che dall’adesione o, peggio, dalla costrizione, a modelli di normalità (o di normalizzazione) passivamente accettata.

Un noto rapporto di qualche anno fa della World Bank nell’affrontare i temi del disagio sociale e delle sue interdipendenze sottolineava che lo sviluppo di una comunità che si realizza attraversa processi che disuniscono/indeboliscono il capitale sociale (inteso come coesione sociale, valori eticamente condivisi, grado di raggiungimento dei diritti di cittadinanza, comunicazione, scambio di esperienze) produce vulnerabilità verso povertà di una parte della comunità, comportamenti patogeni, alcune malattie mentali e l’aggravamento di altre. Povertà, comportamenti a rischio e malattie mentali hanno fattori di rischio strettamente interdipendenti, tanto che ciascuna di queste condizioni può provocare l’altra: ciò determina l’assoluta necessità di un approccio di salute pubblica ai problemi psichiatrici che consenta di collegare la psicopatologia e la sofferenza del "caso" con gli elementi socio-ambientali e di contesto che ne definiscono i fattori di rischio (individuale e collettivo), quelli di protezione e le variabili che incideranno sulla possibilità di effettuare un idoneo trattamento e sulla sua efficacia. Per occuparsi della salute mentale bisogna considerare una serie di fattori collegati a livello delle singole comunità che, ad un primo sguardo, potrebbero non sembrare problemi psichiatrici. E’ possibile così identificare forze e risorse locali che possono contribuire a creare programmi territoriali che tengano conto delle tradizioni locali e dei valori culturali.

Vai a inizio pagina

Il modello razionale

Il tipo di razionalità, su cui sembra sempre più fondarsi la nostra cultura, di poter prevedere e controllare tutto, ovviamente deve fare i conti in modo diverso con il dramma delle domande poste dalla sofferenza psichica e in particolare a quelle a cui non si riesce a trovare ancora risposta.

Non poteva bastare, quindi, umanizzare semplicemente l’assistenza: era necessario anche mettere in discussione la cultura medica tradizionale ed il suo modello scientifico fondato prevalentemente sull’oggettivazione. Il contratto terapeutico, ad esempio, asimmetrico per sua natura, può così tendere più alla riduzione dello spazio fisico, psicologico, relazionale e sociale del paziente psichiatrico e come corollario di garanzia di controllo, invece che come ampliamento di spazio vitale tendente alla graduale conquista di una interdipendenza paritaria, di un’autonomia e di una responsabilità perdute o mai raggiunte.

I servizi che operano con il modello del prendersi cura sono obbligati a confrontarsi quotidianamente con la complessità dei problemi e gli utenti più che mai visibili restano in carico. Il piano di lavoro, che agisce su tutti gli elementi in gioco che favoriscono consapevolezza e responsabilità, prevede l’attivazione di (sempre) nuove prospettive e percorsi nella ricerca di risposte a problemi che risultano molto più complessi e articolati di quanto la semplice riduzione a "malattia" possa consentire di comprendere e di risolvere. Il piano deve necessariamente attivare nuove prospettive nei confronti di un "rischio" che non può ricadere soltanto su chi è portatore della sofferenza, per farlo sparire, ma che rientra nel mondo di tutte le relazioni possibili. Deve ancora mettere in discussione i processi di delega, di appalto e di occultamento che vengono demandati al tecnico (gli operatori dei servizi) tradizionalmente riconosciuto più come tutore dell’ordine e della sicurezza, che come competente tutore e promotore di salute.

Che cosa capiterà a quella persona che soffre, a quel contesto familiare disperato se noi (il singolo operatore, il gruppo di lavoro, il servizio) non ci prenderemo in carico quella situazione? Quanto più oscura e difficile risulta la risposta, tanto più (afferma Jonas) nitidamente delineata dovrebbe essere la nostra responsabilità nel prendercene cura. Responsabilità non solo di trattamento, ma necessità di prendersi cura, di attenzione, di preoccupazione, di rispetto. Jonas aggiunge che quanto più problematico ed inusuale è nel manifestarsi ciò che temiamo o ciò che ci tiene in apprensione, tanto maggiore dovrebbe essere la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva da mobilitare ed indirizzare nei modi opportuni per cercare le soluzioni possibili ma anche le più adeguate per risolvere quella situazione.

Nel momento in cui si opera curando l’altro che soffre, si dovrebbe essere consapevoli che si entra in una dimensione che non è mai soltanto tecnologica, ma anche e soprattutto etica: la dimensione etica di questo specifico atto di cura e del progetto più complessivo di presa in carico. Il solo sapere non basta, perché la dimensione etica del prendersi cura non invia soltanto all’intervento ideale e perfetto, quanto piuttosto al ripiegamento dell’atto su se stesso alla ricerca non tanto del come quanto del perché.

"Le nostre società, afferma Benasayag, finiscono per credere, nel senso profondamente antropologico del termine, che il reale debba disciplinarsi e disporsi secondo griglie, modelli e concetti". La relazione con il mondo e con gli altri diviene così una relazione con i modelli e, una volta fissate etichette e modelli prendono il posto del mondo. E’ il passaggio, secondo l’Autore argentino, dall’epoca dell’etica a quella dell’etichetta.

Non basta soltanto decidere, si deve decidere per il meglio, un meglio che nella psichiatria è ancora oggi oscuro, dubbioso e confuso.

Un meglio che più spesso di quanto se ne abbia consapevolezza è condizionato da pregiudizi, da rischi di usi distorti o, più semplicemente, da abusi.

Cura quindi non come semplice cura della malattia né tanto meno riduzione della libertà, ma piuttosto come tutela e protezione della persona sofferente, che a causa della sua sofferenza corre rischi che mettono in gioco la sua capacità di libertà e di autodeterminazione in alcuni momenti e in alcune circostanze della storia della sua sofferenza e della sua vita.

Non mancheranno i momenti difficili nei quali la relazione faticosamente costruita viene messa in discussione e subisce attacchi anche furibondi da una parte e dall’altra che a volte potranno anche essere letti come paradossale ma prepotente richiesta di maggiore protezione e provocatoria sfida e messa alla prova delle capacità di tenuta.

Cura come possibilità di relazione, che a volte può divenire anche drammatica, con l’assunzione di una funzione di protezione che in alcuni momenti può farsi anche molto forte ma che deve in ogni momento seguire la prospettiva di attribuzione e/o restituzione di riconoscimento di soggettività .

E quando la cura può divenire anche un obbligo (sia a curare che a curarsi) è necessario cercare il suo superamento in una reciprocità che sfocia in un rapporto di fiducia che scioglie, nel fluire delle relazione tra persone, la rigidità delle contrapposizioni tra diritti e doveri. I diritti e doveri del curante e del curato possono assumere così una concretezza lontana da processi di distanziamento, di contrapposizione e talora di sopraffazione per divenire una leva per rafforzare legami che, a partire dalla relazione, si trasformino in possibili risorse di riproduzione sociale.

Perché la volontà e la libertà di ognuno di noi non sono valori astratti, decontestualizzati, sempre uguali dovunque e in ogni momento allo stesso modo. Al contrario sono relativi alle reali condizioni di vita, esistono nella misura in cui siamo in grado di perseguirli con serenità, agirli in rapporto a contesti che permettano livelli adeguati di autodeterminazione e contrattualità, di sviluppo di autonomia affettiva, emotiva decisionale. Volontà e libertà necessitano di scenari che permettano loro un’adeguata rappresentazione: quando il rapporto tra la persona e il suo contesto si incastra , per molteplici motivi, in una condizione di sofferenza che può manifestarsi, per difendersi dall’angoscia con la malattia, la resistenza sino al rifiuto della cura si collocano nella dimensione della coazione piuttosto che della libertà. L’assunzione di una decisione per il paziente in questi momenti è anche assunzione non facile di responsabilità per tentare di sbloccare una situazione di irrigidimento nella quale chi soffre non riesce neppure a trovare strumenti dialettici adeguati.

La funzione di tutela in un rapporto rotto, lacerato e drammaticamente sofferto, prima con se stessi che con gli altri, costituisce uno dei momenti di maggiore difficoltà e tensione dove spesso entrano in gioco in modo esplicito o implicito, consapevole o inconsapevole, vissuti ed agiti di sopraffazione e/o di abbandono e di rifiuto, dove invece è necessario, anche se difficile, trovare i modi per sciogliere le tensioni, per sdrammatizzare la situazione, per restituire senso agli accadimenti, per valorizzare le soggettività che rischiavano di frantumarsi, per rimodulare e riorganizzare, in fine, le relazioni .

Se è certamente vero che la nuova dimensione operativa del servizio di salute mentale di comunità permette scenari inimmaginabili nell’istituzione manicomiale, è altrettanto vero però che i nuovi servizi non sono immuni da pratiche neo-istituzionali (reparti psichiatrici in cui si abusa di farmaci e contenzioni, invii in cliniche private dove il paziente viene dimenticato, residenze come depositi, attività ambulatoriale specialistica per la somministrazione di farmaci o di psicoterapie più che centri di salute mentale) che tendono a sequestrare il problema o ad abbandonarlo. Che sono, come storicamente dimostrato, facce della stessa medaglia.

I servizi (e l’operatività) centrati sul trattamento, che vedono i problemi esclusivamente dal punto di vista della soluzione, sono servizi in cui gli utenti spariscono: il problema viene riconosciuto solo se solubile, altrimenti viene negato con un’operazione che mistifica la sofferenza classificandola come irrecuperabile, creando specifici spazi per contenerla e custodirla, costruendo la disciplina che giustifica e amministra la negazione del problema insieme alla negazione di chi ne è il portatore.

La trasformazione di risorse (specifiche del servizio e aspecifiche del contesto) in capacità proprie dell’utente costituiscono una fase di transizione del processo di cura che costringono a ricercare anche nel contesto e nella sua rete le offerte capaci di realizzare questa trasformazione in modo concreto, nella quotidianità, secondo un progetto che non può che essere di lunga durata. Ricerca di un reticolo che non va inteso soltanto come servizi sociali e sanitari o come luoghi fisici, ma soprattutto come (dice Petrella) la rappresentazione delle relazioni emotive e della trama narrativa che le contiene, come luoghi fisici ma anche luoghi della mente, come storia del paziente e storia del suo contesto, come dimensione intrapsichica ma anche come dimensione relazionale e sociale.

Vai a inizio pagina

Le trasformazioni del Welfare

Se concordiamo che il prendersi cura sarebbe dovuto essere l’aspetto centrale della pratica del servizio di salute mentale di comunità è necessario anche concordare su quali siano le condizioni organizzative minime e preliminari perché essa si possa realizzare :

  1. la referenzialità verso un ambito territoriale definito e delimitato la disponibilità di risorse adeguate (economiche e di personale) rispetto alle richieste di quel territorio;
  2. la non selezione della domanda come regola a cui attenersi ma anche come obbiettivo da perseguire giorno dopo giorno; ma anche una regolamentazione delle risposte in funzione della gravità dei bisogni e delle risorse disponibili ed attivabili;
  3. la continuità terapeutica come capacità di dare priorità alla relazione con il paziente evitando separazioni e scissioni tra le singole attività e servizi;
  4. la capacità di organizzare il servizio in modo tale da essere in grado di accogliere in modo continuo e stabile le domande e di dare le risposte ugualmente in modo continuo;
  5. la capacità di essere un attivatore della rete sociale e un moltiplicatore delle risorse di cui essa dispone.

E’ il modello di Dipartimento di Salute Mentale nato dalla legge di riforma ed inserito in una nuova organizzazione sanitaria e sociale che lo stato si era dato come Welfare assistenziale chiamato da qualcuno anche Welfare della sicurezza, conquista di una lunga stagione di esperienze critiche di rinnovamento, di grandi rivendicazioni di diritti, di nuove generazioni di professionisti.

Questa fase oggi sembra in via di definitivo superamento: si sta tentando di fare il grande balzo verso il Welfare dei servizi con la trasformazione aziendale della sanità pubblica che qualcuno ha anche chiamato Welfare dell’utilità .

Welfare dei servizi che si volevano equi, efficienti e generalisti, che per problemi economici ed organizzativi ha trasformato le USL in gigantesche ASL nelle quali l’operatività viene oppressa da processi di gerarchizzazione, di registrazioni, di valutazioni, di contrattazioni.

Questo tipo di Welfare si sta rapidamente trasformando in un Welfare dei consumatori, con organismi erogatori di prestazioni (tariffate, numerate, quantificate) acquisibili ovunque sul mercato pubblico o privato. Tutto ciò attiene al più moderno scenario del mercato ove la capacità contrattuale è garantita da una transazione economica precisa (anche se virtuale) e i diritti si concretizzano nel valore economico della transazione intesa come PRESTAZIONE sia come offerta (remunerata) sia come domanda (indirizzata a prestazioni tariffate).

Le ragioni seduttive di questo modello sono evidenti e coerenti con tanti altri accadimenti della nostra attualità.

Ma, al di là delle probabili facili vittorie che questo modello ha le potenzialità di conquistare, è indispensabile chiedersi se esso è in grado di garantire nei fatti la promozione della salute e se non tradisca nella sostanza le pratiche di innovazione e di trasformazione di cui più sopra abbiamo parlato.

Non ci convince per diversi motivi:

  • prima di tutto perché al mercato si compra un prodotto, ma la nostra salute è un progetto che nessuno, in nessun caso, può ridurre a un prodotto;
  • la prestazione spendibile ovunque obbliga il mercato dell’offerta ad attrazioni sospette, ad attese di produttività, a prodotti rigidi e preformati, ad investimenti che possono divenire monopolio esclusivo del privato, alla induzione di domanda laddove più remunerativa è la risposta, al condizionamento di bisogni nella direzione in cui la produzione vuole (ha interesse) a sviluppare il proprio mercato;
  • la medicalizzazione del bisogno tende ad enfatizzare la spesa sanitaria sottovalutando o trascurando la rete sociale e le sue risorse. Si arriverà obbligatoriamente alla situazione nella quale si dovrà decidere qual è il bisogno al quale si devono risposte, quale tipo di risposta ed in base a quali criteri. Chi, come, perché e quando si prenderanno queste decisioni? Nel frattempo si corre il rischio che i servizi a dimensione pubblica saranno disfatti: questi più o meno efficienti che siano per loro natura sono e saranno comunque orientati diversamente, verso un’etica pubblica e una solidarietà che anche se mal praticate, comunque li fondano e ne giustificano l’esistenza .
  • il mercato della sanità non garantisce l’accessibilità alle risorse, non tutela l’equità della loro utilizzazione, non garantisce la qualità (nel senso dell’efficacia pratica) delle prestazioni.

Mi sembra evidente che, se lo scenario futuro dell’organizzazione sanitaria avrà queste caratteristiche, tutto quello che molti operatori hanno tentato di fare per chiudere i manicomi prima, e nei nuovi servizi dopo, le sue peculiarità, l’impegno per una nuova cultura e una nuova pratica, la messa in crisi di certezze e la continua ricerca di risposte autentiche e mai rigide, i tentativi di restituzione al "sociale" possono far parte, a buon diritto, del mondo dell’utopia.

A questo mondo non appartiene certamente l’esperienza drammatica della psicosi.

Ma al mercato questo interessa poco: è sufficiente trovare, di nuovo, luoghi dove controllarla ed occultarla .

Di luoghi come questi, e il S. Maria della Pietà è qui a ricordarcelo, molti di noi ne conservano una grande, dolorosa esperienza.

Nessuno oggi ha l’arroganza (o il coraggio?) di affermarne la necessità ma, a volte, mi viene da chiedermi (e da chiedervi): ma perché li abbiamo appena chiusi?!

Vai a inizio pagina