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Il transfert del paziente borderline e la funzione istituzionale
“I sogni vengono raccontati alla persona a cui Devo premettere che quando parlo di “analista” mi riferisco essenzialmente alla funzione analitica di base che un analista deve attivare per costruire una “terapia su misura” (Horwitz e coll., 1996) per il paziente “… comprese quelle situazioni dove apparentemente è impossibile restarlo, se non nell’arte sottile di cessare psicoanaliticamente di esserlo” (Cahn, 2003). Ritengo che, soprattutto nelle configurazioni borderline, il transfert del paziente sia particolarmente connesso alle posizioni controtransferali assunte dall’analista. In questi casi è soprattutto il controtransfert che permette di “selezionare”, leggere e usare i livelli sospesi che il transfert del paziente impone. Infine sono d’accordo con la tesi che le terapie dei pazienti borderline debbano prevedere una serie di interventi strutturati secondo modelli psicodinamici differenziati. Ritengo però che una manutenzione analitica del processo e dello spazio articolato delle cure sia il dispositivo più potente di organizzazione e gestione degli interventi. Quando parlo di “analisi” e di “analista”, non escludo affatto la necessità di altri interventi paralleli coordinati di intervento, ma qui io mi occupo del possibile contributo della funzione analitica nella cura del paziente borderline. 1. Elementi del transfert. Il transfert è un dispositivo che si compone sempre di fattori (Bion) in sé “psicotici”, ovvero, elementi che compaiono nel mondo solo perché funzionali alla sopravvivenza del soggetto e che non sono ancora stati modificati nella condivisione con un’altra mente. Situazioni in cui un elemento β si impone perché possa essere trasformato in un elemento ora rappresentabile (pittogramma) confrontandosi con il codice di un’altra mente: Un esempio banale: un paziente ha un incidente con il motorino il giorno della sua ultima seduta prima della sospensione delle vacanze natalizie. Si tratta della riproposizione di un prodotto mentale in termini β, che non si organizza secondo parametri di sequenzialità di spazio e tempo, ma solo secondo una logica di simmetria meccanica che non ammette nessuna progettualità di una mente che usi elementi psichici. Questo elemento non è possibile ricordarlo né immaginarlo: può essere solo riproposto concretamente (Bion). In questo ambito valgono le note raccomandazioni di Freud sui sogni ricorrenti e sul processo analitico, ovvero che questi elementi si impongono e spesso si ripresentano perché chiedono di essere interpretati (trasformati). E’ la dinamica degli elementi psicotici: essi possono solo ripetersi sempre uguali per sostenere il loro progetto comunicativo finché non trovano un altro registro simbolico per manifestarsi. In quella che possiamo chiamare “l’area borderline” del transfert i pazienti non ci convocano in una dimensione di ordine conflittuate (sostanzialmente di ordine edipico), ma ci propongono la loro disperazione a “mentalizzare”, come suggeriscono Fonagy e Gabbard, ovvero che un elemento β, sensoriale, possa essere rappresentato in un pittogramma, in un’immagine mentale e in un pensiero. In quest’area l’analista si trova ad “agire prima di pensare” (Ferro, 2002) ed è l’area delle reazioni “spontanee” dell’analista (Boccara, 2004). E’ l’area fatta di azioni e sensorialità che cercano un contenitore significante come le anime erranti dei guerrieri senza sepoltura[1]. In queste aree del transfert, il registro simbolico è eccentrico: “lo strumento verbale che le cure utilizzano è vissuto come persecutorio” (Maffei, 2002, 114). Si tratta della esperienza transferale (e controtransferale) di un Oggetto Cattivo. Quando parliamo di “oggetto cattivo” (Bad Object) ci riferiamo ad una esperienza somato-sensoriale di fondo (Stern, Damasio, Correale) del soggetto che non è stata ancora cimentata con un’altra mente. Infatti lo stesso Gabbard sottolinea come terapeutico l’evento di trasformazione e la caratteristica di trasformabilità riconosciuta all’Oggetto Cattivo. Considero che la trasformabilità dell’oggetto riguardi il passaggio transmodale (Bucci, 1996) dell’evento: ciò che è motorio, ad esempio, può diventare un’immagine o un pensiero aggressivo. Non ci sono dubbi che permettere (entro certi limiti, ovviamente) ad un paziente di poterci insultare verbalmente, quando avrebbe voluto darci un calcio significa connotare di trasformabilità un Oggetto Cattivo, non necessariamente averlo reso meno doloroso. 2. Il transfert e l’istituzione. Faccio un’affermazione: il transfert borderline cerca una istituzione. L’istituzione a cui mi riferisco è una funzione prima che una organizzazione: è la capacità di un oggetto di funzionare come contenitore. Nel caso del paziente borderline, l’istituzione deve potersi connotare come costituita da parti fra loro dissociate, ma legate da relazioni di ordine persecutorio che, nonostante tutto, non distruggono il contenitore. Il questo senso, la persecutorietà - attiva nel campo di relazione borderline - è la cifra preziosa su cui intervenire. E’ il dispositivo dinamico che permette al paziente di muoversi nel mondo e, nel transfert di incontrare oggetti che nella sua esperienza di fondo sono stati distrutti dal fatto stesso che il paziente era vivo[2]. In questi casi c’è assolutamente bisogno di una Istituzione nel senso winnicottiano, ovvero non di una madre, ma di una madre-ambiente. L’analista è chiamato a funzionare come istituzione e un’istituzione solo concreta è inadeguata per un paziente borderline se non è continuamente sostenuta da una “manutenzione analitica” della propria organizzazione. Per manutenzione analitica intendo una serie di dispositivi interni all’istituzione che la rendano sostanzialmente capace di funzionare nonostante i pazienti: il compito non è di risanare la persecutorietà, ma di permettere che sia tollerata come elemento coesivo del Sé del paziente senza frantumare l’istituzione. I livelli di qualità possono essere vari, ma la funzione di base che un paziente borderline chiede all’istituzione è di partecipare alla propria follia mantenendo, come nella famosa scenetta televisiva di Totò e Pasquale (“Senza rete”, 1961) la propria identità nonostante gli attacchi esterni. Il transfert borderline individua sempre uno spazio esterno capace di contenere la persecutorietà consecutiva alla strutturale incapacità del paziente a tollerare la depressione (Green) e questo spazio esterno è transferalmente sentito il motivo della povertà e della mortificazione che il paziente sente. Quando dico che il paziente cerca un’istituzione, sostanzialmente dico che il paziente fa in modo – usando tutto il suo potere vitale – che fuori di sé si costituisca una istituzione per lui. Tale istituzione si compone di un analista, una “situazione analitica” (Donnet, 2001), e di elementi del setting: ciascuno di questi fattori è chiamato a sostenere una funzione transferale specifica (poteremmo dire a giocare un proprio ruolo). I personaggi più discriminati sono l’oggetto della massima persecutorietà. Seguendo le tesi di Donnet sulla “situazione analizzante” suggerisco che nessun personaggio, per se stesso, è capace di funzioni trasformative, ma che il dispositivo trasformativo è quello che Donnet chiama “l’analitico di situazione”, ovvero una precisa, fortunata - ma transitoria - configurazione che tutti gli elementi in campo acquisiscono in un dato momento del processo terapeutico. I vari elementi convocati dal transfert del paziente devono giocare autenticamente (Riefolo, 2003) la propria parte sostenuti però dalla certezza di riconoscersi tutti all’interno di una istituzione, ovvero un contenitore comune. Laura mi dice che a casa oggi ha trovato un geco. Ha avuto molta paura perché i gechi le ricordano le lucertole che possono andare dovunque. Poi ha pensato che i gechi mangiano gli scorpioni e, quindi, meglio i gechi che gli scorpioni. La scorsa settimana c’era uno scorpione fuori della porta del bagno: ne ha avuto orrore. E' corsa a chiamare la portiera la quale, arrivata sul posto ha ucciso lo scorpione con una ciabatta e le ha detto di cambiare insetticida. Le sottolineo che ora sente di poter essere aiutata a difendersi dagli scorpioni! Esplode. “Ma che cazzo mi dice! Io non capisco mai lei come la pensa!” Finora Laura si cimentava solo con oggetti/scorpioni. Ora c’è l’individuazione di una funzione di cura che Laura mantiene separata dall’analista. La persistenza del transfert e il processo terapeutico discriminano nello scorpione una serie articolata di funzioni che possono organizzarsi come una istituzione organica. L’istituzione (analista o servizio) è chiamata a tollerare la dissociazione che il paziente impone. In questo caso la persecutorietà si attiva violentemente contro la figura dell’analista, (“lucertola”) mentre la paziente sembra poter accettare l’esistenza di una funzione di cura che chiama “geco” che tenta di tenere distinta dalla persona dell’analista[3]. A questo compito può essere chiamato il singolo terapeuta o una vera e propria istituzione curante. La competenza che viene chiesta a questa “istituzione curante” è di poter sostenere verso il paziente quello che Donnet (p. 8) definisce “l’analitico di situazione”, ovvero permettere in alcuni momenti che una serie di elementi concreti del setting – privato o dei servizi – determinino trasformazioni negli elementi che il transfert propone. E’ quello che accade nelle situazioni di “relazione terapeutica negativa” o di “non-collaborazione”: il paziente può permettersi la rabbia verso l’analista, sostenuto dal transfert positivo verso “la situazione analizzante”. L’analitico di situazione è qualcosa che ha a che fare con la funzione attiva di una istituzione curante distinta dagli operatori che vi sono al suo interno. (Donnet, 8), ovvero un processo a cui partecipa l’analista (gli operatori), ma che non dipende solo da lui, ma da una particolare e felice “situazione” che può venirsi a creare. 3. L’istituzione e la sostanza. L’istituzione di cura (analista o servizio istituzionale) prima che funzionare come oggetto, si presta a funzionare come sostanza (Balint, 1961) che, attraverso il dispositivo del transfert, permette al paziente di trovare/inventare gli oggetti. I servizi territoriali, a mio parere, rispetto al singolo analista, hanno il vantaggio ovvio di essere già strutturati secondo aree fra loro separate e distinte, a cui le proiezioni del paziente potranno facilmente aderire, ma faticano a sostenere, nel lungo periodo, la sostanziale “responsabilità della realtà psichica” (Meltzer, 1967) di cui il paziente ha assoluto bisogno[4]. Monica è un tipico caso di grave disturbo borderline seguito da un servizio territoriale. Sia lei che la famiglia per anni hanno orientato verso il servizio la loro rivendicatività in cui chiedevano un risarcimento infinito per i gravi danni che la struttura psicologica di Monica aveva subìto con dei genitori riusciti sul piano sociale, ma assolutamente incapaci di comunicare autenticamente ai figli i propri limiti e le proprie fragilità. Per molti anni lo scenario istituzionale ha accolto e si è fatto carico dei suoi modelli di funzionamento gravemente PS, mantenendo sempre il progetto di presentarsi autenticamente presente, vulnerabile, ma solido non restituendo mai la sua grande rabbia persecutoria e distruttiva, ma funzionando continuamente come una istituzione che sopravvive nonostante gli attacchi feroci, comprensibili, ma distruttivi, dei pazienti. In questo caso il gruppo istituzionale del servizio ha potuto mantenersi sempre compatto forse perché la gran parte della responsabilità del caso era sostenuta da un unica figura terapeutica, la quale si avvaleva della collaborazione di altre figure rimanendo comunque, il riferimento centrale del caso per tutto il tempo. Non si tratta semplicemente di decidere la figura di riferimento per il caso, ma di permettere che emerga una figura che funzioni da rappresentante affettivo dell’istituzione. Infatti, in questo caso non c’è mai stata quella che nel gergo dei servizi si definisce una “équipe di riferimento”, ma un terapeuta che, di volta in volta poteva avvalersi delle necessarie collaborazioni. Sia Monica che i parenti continuamente attaccavano e svalutavano ogni progetto di cura, presentando il loro grande bisogno concreto che veniva sempre a confrontarsi con gli effettivi limiti del servizio. E’ mia convinzione che non sempre fare molto in questi casi sia fare il giusto. Certamente serve essere costantemente e adeguatamente preoccupati (Winnicott). Penso che una istituzione che funzioni debba permettere all’operatore di poter essere solo – in senso winnicottiano - con il suo paziente. Con Monica ad un certo punto accade un evento significativo. In una fase in cui la paziente mantiene un livello di maggiore rispetto verso il contesto di cura e verso la mia persona e la mia funzione, riesce a ricontattare un analista incontrato senza esito alcuni anni prima e inizia un percorso di analisi che – seppure a fasi discontinue - dura da alcuni anni[5]. In questo caso le potenzialità concrete di una istituzione territoriale permettono alla paziente di poter discriminare un’analista da un terapeuta potendosi permettere l’esperienza che queste due funzioni, anziché eliminarsi a vicenda, potevano coesistere e collaborare. Questo percorso, probabilmente, sarebbe stato più complesso nel caso l’istituzione della paziente fosse stata il solo analista incontrato nella stanza di consultazione privata. Gli psicotici ci hanno aiutato a strutturare gli attuali servizi; i borderline ci possono aiutare a migliorare quelli di cui avremo bisogno nei prossimi anni. Gli attuali servizi sono capaci di intervenire sulle “carenze psicotiche”. I borderline ci chiedono la capacità di riconoscerci limitati, ma vivi; ci pongono particolarmente il problema della responsabilità della realtà psichica profonda verso il paziente, ovvero la capacità di depressione. In questa linea penso che l’analista come istituzione debba imparare dai servizi la capacità di contenere in sé varie funzioni, tollerando di essere chiamato come persona a sostenere direttamente e “da solo” la persecutorietà viva del paziente. I servizi penso debbano imparare dagli analisti la responsabilità psichica verso il paziente. In fin dei conti ritengo che l’istituzione migliore per un paziente borderline sia un buon servizio territoriale, proprio perché esso ha inscritto concretamente nella propria organizzazione, la differenziazione delle figure e delle funzioni. Ma gli attuali servizi territoriali, a mio parere, sono puntualmente messi in scacco proprio dai pazienti borderline i quali spesso trovano un servizio articolato, ma non trovano una vera istituzione. In un servizio capace di accogliere i pazienti borderline ciascuno di noi è chiamato ad essere uno specialista che opera in un servizio pubblico. Io penso sia anche un problema di nuova organizzazione dei servizi: ritengo che in questi casi, siano da ripensare le funzioni dei classici strumenti di lavoro - fondati sulle funzioni del gruppo degli operatori - strumenti che hanno caratterizzato i nostri servizi in questi anni, poiché questi strumenti risultano spesso troppo generici ed anonimi, necessari, ma non sufficienti alla cura di pazienti così difficili, estremamente permeabili all’evitamento del paziente grave. Il gruppo degli operatori rimane fondamentale nella funzione di depositario degli elementi β, indifferenziati, dei pazienti, ma soprattutto i pazienti borderline impongono che il baricentro dell’intervento sia spostato dal gruppo al singolo operatore il quale deve sentirsi motivato ed autorizzato ad emanciparsi dal gruppo istituzionale (Gaburri, Ambrosiano, 2003). In questa linea, all’interno di servizi più agili e leggeri, penso siano necessari dispositivi semplici, diretti e concreti, di ordine gratificante negoziati dal servizio col il singolo operatore, capaci di motivare ciascun operatore a funzionare – come suggerisce lo stesso dr. Gabbard – in modo consistente, costante e coerente, ovvero ad assumersi la responsabilità della realtà psichica di un paziente che per definizione ci chiede di cimentarci con psicotiche aree di fallimento. Giuseppe Riefolo [1] “l’anima mia, perciò non stava bene e, impiagata, voleva tuffarsi al di fuori, miserabilmente, per sentire il piacere di cose sensibili” (Agostino, p. 122). [2] Nel film Nόi Albinόi, quando la montagna si muove, distrugge tutti i personaggi della vita di Nόi il quale si salva solo perché, durante la valanga si era rifugiato nel suo solo, caldo, spazio vitale, un piccolo scantinato messo sotto il pavimento della sua stanza. [3] “…un effetto aggiuntivo degli interventi interpretativi è di confermare al paziente che egli utilizza a ragion veduta – sia pure negativamente – la situazione” (Donnet, 8). [4] “La ‘responsabilità della realtà psichica’ comprende, nell’ambito della struttura mentale, funzioni pressoché identiche a quelle di un adulto che controlla le attività di un gruppo di bambini, e cioè osserva e, se necessario, frena il loro comportamento” (Meltzer, 1967, 114). “Nei casi… di pazienti borderline o psicotici, nelle tossicomanie e negli psicopatici, il parallelismo con l’analisi infantile è più evidente, sia quando venga richiesta l’autorità ed il sostegno di qualche persona od istituzione, sia che questo venga fatto costantemente o periodicamente (ib. 113)”. [5] “ad un certo momento della cura l’analista si rese comunque conto che qualcosa era cambiato, che il clima del rapporto era divenuto migliore…” (Maffei, 119). |