|
Il Caimano di Nanni
Moretti (2006)
“spesso
l’ovvio non viene osservato”
Bisogna fare l’ennesimo film su
Cristoforo Colombo o niente? Bruno, un produttore in crisi creativa, non avrebbe
mai voluto trovarsi in quella situazione: in fondo, si può continuare a fingere
di essere creativi senza mai creare niente. Nella vita accade che, per una serie
di circostanze, bisogna cambiare anche se la ripetizione rassicura assegnandoti
una gratificazione anonima che è data a tutti: “era diventato bravissimo nel
parlare molto senza dire niente. Uno dei modi più efficaci di mentire” (Katzenbach,
L’analista, 440). A Bruno succede di dover cambiare per caso,
nonostante se stesso: non può più fare gli stessi film insignificanti a cui,
pure, tiene molto e il caso gli consegna una storia
che tutti conoscono, ma che nessuno sa dire: “porca miseria!… un film
su Berlusconi!… come ho fatto a non capirlo prima?”.
Forse il film parla della stanchezza che
ti prende quando senti che il tuo sogno è troppo piccolo perché qualcun altro
lo possa condividere e che possa crescere: “Vedrai – dice Bruno al suo
regista - con questo modellino possiamo girare tutte le scene!”; “Ma è un
giocattolo… non possiamo girare il film!”.
Per questo il regista andrà via e Bruno rimarrà solo. La fine del film mi trovava ad applaudire
meccanicamente, con i pensieri altrove, forse disorientato da un finale amaro
che mi indicava un futuro prossimo impotente e rassegnato che non riuscivo ad
accettare. Mi sono guardato intorno e vedevo che anche per gli altri, forse, era
lo stesso smarrimento. Il giorno dopo guidavo sull’autostrada.
Mi aspettavano per parlare di Roberto che era stato all’università,
ingegneria elettronica, e da 10 anni si era ritirato nel suo paesino dove il suo
tempo si era bloccato. Aveva organizzato ossessivamente ogni momento della sua
giornata e quando voleva parlare c’erano “Quelli della Storia”, comandati
da Clinton, con cui aveva il suo dialogo intimo e a cui nessuno poteva
partecipare. Forse si era bloccato perché una donna l’aveva lasciato; o forse
perché il padre era morto; o forse perché la madre era una persona strana che
aveva le unghie ben curate, ma a casa gli operatori non riuscivano ad entrare
per la terribile puzza di “cose andate a male”: chi lo sa che cosa viene
prima! Sta di fatto che questo era Roberto. Lui aveva attraversato molti
servizi, ma pochi lo ricordavano… le cartelle cliniche spesso erano vuote! Si
capisce subito che per sopravvivere Roberto deve aver scelto la strategia del
fantasma. Ad un certo punto, però deve aver avuto la necessità di sentirsi
vivo e di farsi vedere: ha cominciato a dialogare ad alta voce, alla finestra,
con “Quelli della Storia” ed è stato ricoverato dove, per l’agitazione,
hanno dovuto anche contenerlo per alcune ore. Ci si chiede, quindi perché
Roberto, ora, può aver cominciato a desiderare di rendersi visibile?. Si
cercano le cause più ovvie: i farmaci, la madre che non ce la fa più, gli anni
che passano; ma poi qualcuno parla di quando Roberto è andato al Centro Diurno
ed ha partecipato al gruppo con gli altri pazienti “psicotici”. La
dottoressa, senza pensarci molto, si era trovata a consigliargli di evitare,
possibilmente di parlare di Clinton e di “Quelli della Storia” perché
temeva avrebbe potuto spaventare gli altri pazienti ed essere respinto da loro.
Ci si rende conto che era la prima volta che Roberto sperimentava -
seppure attraverso gli altri - il contatto con la propria psicosi, e,
chissà perché, la reazione automatica del mondo era di temere che lui potesse,
impotente, esserne respinto e sconfitto. Forse per tutta la vita aveva
organizzato l’evitamento di una zona autentica di Sé e forse, adesso, il
problema del suo futuro era se e come potersene occupare. A questo punto, molti
parlano della sensazione che lui evocava di estremo rischio di agitazione e di
violenza… una mina inesplosa. Il
fantasma fa paura quando si rende visibile e Roberto, ora, metteva paura. Poi
qualcuno parla dei grandi occhi chiari con grandi ciglia di Roberto: strano! un
fantasma dagli occhi buoni che deve aver avuto paura di contattare la propria
psicosi in quel gruppo del Centro Diurno. Io sto ancora pensando al film e vedo
la Caravella che scivola dal sogno di Bruno verso qualcun altro che non
l’aveva mai sognata, ma che se ne impossessa. Nel film, a quel punto non hanno
più senso le parole, ma le scene e la musica dicono della rabbia di uno che si
scopre impotente e derubato di un sogno. Quando vedi che la tua donna ti è stata
tolta da un altro, allora nel film finiscono le parole, e vai solo, in giro,
perché niente ti tiene se hai perso qualcosa di fondamentale (quello che gli
psicoanalisti chiamano “Oggetto-Sé”). Il film allora si apre e ti accorgi
che stai perdendo tutto nonostante per tanto tempo ti affannavi ad illuderti che
potevi ancora fare sempre un altro film. Per strada ti investe un tuo antico
sogno che a suo tempo hai dovuto lasciare ed
ora ti ritorna con le dimensioni mostruose della realtà. Come in un film di
Fellini, ipnotizzato, Bruno si trova a seguirlo perché è mille volte più
grande della Caravella che aveva immaginato. Inseguendo quella visione dalle
dimensioni mostruose senti che arriverai a toccare altre ferite. Infatti la
Caravella che, di notte, scivola per le strade di Roma, porterà Bruno a
scoprire che lui non potrà fare il film che vuole. E’ qualcosa che già
sapeva da tempo! Forse solo a questo punto Bruno sente che bisogna cambiare,
perché tutto è già cambiato. Gli analisti sanno che le trasformazioni
chiedono che ciò che è concreto e pesante diventi, con gran fatica, leggero e
possibile: “quanta delicatezza … è necessaria per essere un Perseo,
vincitore di mostri!” (Calvino, Lezioni americane, 7). Come per Roberto, è un momento doloroso in cui senti che non puoi continuare a evitare di sapere: “voi italiani siete un popolo strano… scavate… scavate… siete sul fondo e continuate a scavare…”. Scavare significa che con Paola si possa continuare a parlare di compiti concreti da distribuirsi e di come evitare di far sapere ai figli che quei genitori si sono da tempo separati, illudendosi che i figli non lo sappiano già. Ma forse, ad un certo punto non è più possibile scavare e la disperazione affiora. Paola tocca finalmente la rabbia di Bruno: “perché hai fatto questa cosa terribile?”. In fondo è il primo contatto autentico fra due persone che si sono incontrate sul falso set di “Cataratte”, un film improbabile che descrive un’altra sufficiente falsità su cui ora, dopo un po’ di anni, per fortuna, si può ridere. Ricordo Annalisa , che ha i miei anni e che seguo da sempre, quando un giorno mi disse che dai nostri incontri aveva imparato soprattutto a sorridere delle situazioni terribili che le accadevano. Forse per paura di essere fraintesa fece una precisazione che confessava quanto io fossi cambiato per lei: “eppure, dottore, lei sembra una persona così seria!”. Il film, penso, suggerisce esattamente
questa possibilità: per ridere bisogna essere profondamente seri. Il Caimano
saluta agitando la mano dall’alto di un elicottero, salta fra la le majorette
e la folla, silenziosa e triste di un teatro televisivo: “ vi ho dato la
televisione anche la mattina e non più solo programmi grigi… non è bello
tutto questo?”. Mi è capitato recentemente di vedere il video di un discorso
di Mussolini da un terrazzo di Ancona. Perché in quegli anni quello spettacolo
non suscitava niente di strano e veniva preso sul serio? Evidentemente, per
quelli di allora, in quella contingenza storica, mancava il senso del comico che
ti permette in certe situazioni di sopravvivere e di non farti schiacciare dalla
concretezza estrema e pesante di una realtà sciagurata. L’interpretazione di
Moretti per me ha avuto l’effetto inverso: tolta la patina del comico, il
giullare ora dice una verità terribile e le frasi finali che lo stesso Moretti
enuncia fanno pensare ad altre
frasi che “Gian Maria” in tante occasioni ha citato parlando della mafia e
dei mafiosi. Il film procede con la cadenza degli eventi
tristi che sembrano avere solo l’esito della rassegnazione impotente: “è
inutile fare un film sulla storia di Berlusconi perché tutti sanno già tutto e
poi lui ha già vinto…”. Il
progetto di Bruno, colto per caso, sembra impossibile da realizzarsi. Il
bulldozer che distrugge la parete della stanza del set che Bruno ha reso sua
addormentandosi distrutto, è un’immagine terribile che ti costringe,
impotente, a prendere contatto con quella realtà esterna da cui il tuo sonno,
per un attimo, ti aveva distratto. Bruno rimane immobile, rassegnato, forse
perché, alcune volte, quello che vedi accadere fuori, in qualche modo intimo ti
appartiene già. Risulta difficile immaginare che quella macchina, che colpo
dopo colpo distrugge un esile
diaframma protettivo, sia guidata da un uomo o non sia piuttosto un mostro
insensibile ed inesorabile. A questo punto il film ha un improvviso
guizzo. Bruno accetta finalmente la separazione da Paola e solo allora ci si
risolve dall’impotenza “devi dire ‘azione!’… devi dirlo con forza!”.
Il film, alla fine, è una riflessione sui cambiamenti e su chi deve
promuoverli. Da fuori possono solo venirci le occasioni, ma gli analisti e gli
artisti sanno che le trasformazioni possono solo essere intime. E’ il notaio
che consegna a Bruno la possibilità, finalmente di filmare l’ultimo giorno
del Caimano: “ma chi li paga tutte queste persone?” chiede Andrea al padre
mentre si aggirano fra la confusione del set che timidamente prende il via. E
“se poi il film va male?”. Bruno non sa cosa rispondere: “Che domande sono
queste?… il film va… va…”. Si tratta di un atto disperato?. Penso che si
tratti del campo delle possibilità: è un percorso che parte dalla impossibilità
di ripetere all’infinito storie su Cristoforo Colombo; che parte dalla
sensazione di rimanere soli proprio quando si decide di cambiare; che parte
dalla incapacità a poter dire alla tua donna quanto lei sia importante per te
fino a rendersi conto che, nonostante pensavi che niente sarebbe cambiato, tutto
sta cambiando, e da tempo, perché i tuoi sogni ti ritornano indietro come
boomerang dalle dimensioni mostruose. E quei sogni non li riconosci più come
tuoi, perché ti vengono regalati da un altro come fossero suoi: “… è
sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in
un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una
realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello” (Calvino, Lezioni
Americane, 7). Giuseppe Riefolo |