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In questo
mondo libero
i luoghi dell’altro
di Ken Loach,
2007
“non sappiamo mai chi stiamo per incontrare,
anche se si tratta di una persona di cui
conosciamo da tempo il nome e l’aspetto”
(R. Kapuściński, 2006).
Il film
Angie ha 33 anni; è
una donna energica e piena di grinta che lavora presso un’agenzia di
collocamento lavorativo per migranti. Quando viene licenziata Angie decide di
mettersi in proprio e di aprire, assieme all’amica Rose, la sua propria agenzia
di reclutamento con un doppio fine: aiutare le persone che ne hanno bisogno e
guadagnare finalmente un po’ di soldi per mantenere il figlio, con cui sta
assieme sempre meno. Si scontrerà con il potere mafioso della concorrenza e con
una organizzazione clandestina che difende i diritti dei migranti. Comunque,
cercherà sempre di fare il proprio interesse coinvolgendosi alcune volte nelle
vite tristi degli immigrati e trovando fra loro l’affetto disinteressato di
Karol.
La visione
Ludmilla sorride leggera e timida, e
consegna i soldi ad Angie… di piccolo taglio… di quelli veramente risparmiati
con fatica… contati mille volte per essere sicuri che sono proprio giusti e che
ci sono veramente e che saranno quei soldi a darti una vita diversa. “Dice che
lascia qui due bambine… ha fatto la parrucchiera…”. Il film sembra finire, così
com’era iniziato: gli schiavi e i mercanti; i sogni, i loro autori e i loro
padroni. Il sorriso timido di Ludmilla ci dice che sarà tradito e, ancora una
volta troverà qualcuno che sopravviverà proprio spegnendo quel sorriso. E’ una
strana forma di speranza… quella di essere ciechi a ciò che è evidente e
inevitabile. Ma, già nel film, sappiamo che, alcune volte, è la sola forma di
vita, quella di una specie di miraggio. Forse il regista vuole dirsi che le cose
degli uomini, quando toccano la sopravvivenza, non cambiano mai: prevale
l’istintualità più primitiva; l’interesse, la commozione per la vita dell’altro,
sono un lusso che ci si può permettere solo dopo che la tua sopravvivenza e i
tuoi oggetti più intimi sono garantiti. Io, però, mi trovo a pensare che
nonostante la parabola sembri chiudersi esattamente laddove era iniziata, di
mezzo c’è un intero film e le persone, se hanno attraversato una storia, non
possono più essere quelle di prima.
Agli psicoanalisti questo succede di vederlo
spesso… anche di sentirlo su se stessi. “Questo gliel’ho già raccontato,
dottore, si ricorda?” L’analista non ricordava nulla… ora, solo una sensazione
di disagio per non essere laddove la sua paziente lo aspettava. Ma era il suo
mestiere, quello di muoversi continuamente per raggiungere il posto dove i suoi
pazienti lo convocavano e, alla sua paziente lo disse, autenticamente …
che non ricordava e che forse era proprio questo il dolore della sua paziente:
sentire di essere sempre in un altro luogo, sbagliato. Forse questa volta il
disagio dell’analista – una certa sensazione di tradimento – le restituiva di
fatto il diritto di sentire che se una bambina si sente in un luogo sbagliato
deve almeno sentire lo sforzo dell’altro a volerla raggiungere. Nel film
sappiamo anche (ma forse lo sappiamo solo quando si accendono le luci in sala e
ci avviamo all’uscita pensosi e frastornati), che quel sorriso impacciato e
fragile di Ludmilla è quello che salverà tutti, noi e loro, chi spera e chi
sopravvive. Esco piano dalla sala e penso che non ci sono altre vie. Essere
invasi, lentamente e per forza, da una strana forma di speranza che si fa strada
con violenza necessaria: “La grande Muraglia non difendeva dai barbari, li
inventava. Ci serve quel muro, ma non per tenere lontano quello che ci fa
paura: per dargli un nome… Al limite possiamo perdere, ma non perderci…”
(Baricco, La Repubblica, 21.10.06). Ognuno faccia la sua parte, ci dice
il film, noi non ci camuffiamo da salvatori perché, in fondo, nessuno può
esserlo, perché, come per Angie, i figli non sono tutti uguali e quelli tuoi non
sono uguali alle due figlie dell’iraniano “tanto ce ne sono altri… che importa
che quelli non vedranno più il loro padre… ce ne sono altri…” Ho avuto paura che
in questi processi, ci sia qualcosa di inevitabile e necessario… che per
cambiare veramente devi essere proprio lì, esattamente dove è l’altro. Lo sforzo
(e la scommessa…) delle analisi è questa: tu sei e rimani l’analista, quello
sdraiato sul lettino è, e rimane, il paziente. Le trasformazioni non accadono
perché i due si capiscono (questo è piuttosto dell’ordine della suggestione,
inevitabile in ogni relazione, quindi anche analitica…), ma accadono perché
ciascuno dei due, ad un certo punto – e continuamente – sente che è conveniente
per la propria vita farsi prendere dalle ragioni dell’altro, rimanendo analista
e rimanendo paziente. Gli analisti sanno che è l’asimmetria che muove il
processo e che l’asimmetria porta con se i conflitti e il potere degli uni e
degli altri. Si può negare o sedare i conflitti, ma un paziente ed un analista
si incontrano perché un accordo implicito suggerisce che l’asimmetria è il luogo
in cui due diversità possono dialogare: “Noi arabi non scriviamo al contrario…
scriviamo da destra a sinistra… Per noi, voi scrivete al contrario” (R.
Andersson, You the living, 2007). Continuo a pensare: “è conveniente per
la propria vita!…”.
Oggi al servizio è venuto a cercarmi Mario,
che da sei anni ha perso la moglie e si è messo a vivere nelle case abbandonate
di Calcata. Da qualche tempo l’hanno mandato via e vive sulle rive del lago di
Bracciano, ma è venuto a dirmi che l’hanno mandato via anche da lì. Ha l’aria
aristocratica, tipica, quella dei barboni: una distanza che senti come difesa da
una zona preziosa ed incontaminata del Sé. In lui quest’area è ancora più
evidente: la barba e i capelli sempre ben curati, la voce calda e l’incredibile
colore bianco panna della camicia e dei pantaloni, di lino, sempre puliti…! Gli
ho parlato sul piano concreto: gli ho detto che non so come aiutarlo… che se
l’hanno mandato via dalla capanna in riva al lago io non so come aiutarlo se lui
continua a rifiutare la casa all’ostello… almeno finché non troviamo una
sistemazione migliore per lui e la figlia. So bene che il mio mestiere non è di
dare quelle risposte concrete che i pazienti ricevono o possono trovare in mille
altri posti e da mille altre persone, ma non sono riuscito ad evitarlo.
“Dottore, non posso accettare di stare con gente, magari barboni, che nemmeno
conosco… La società deve ridarmi la casa che ho perso… ho la mia dignità!”. Io
so bene di cosa parla e che la casa non è il vero soggetto del nostro discorso.
Anche lui sa che io l’ho capito e forse per questo mi cerca; forse per questo mi
passa la sua disperazione e mi fa sentire impotente. Lui non accetta la casa che
vogliamo dargli, perché vuole la moglie che ha perso sei anni fa e che per lui
deve rimanere esattamente quella di sei anni fa! Sto al gioco letterale e gli
dico che sono d’accordo… che nessuno può offenderlo… che è vero… bisogna
rispettare la sua dignità. Forse potremmo cercare di trovare una stanza in una
pensione: una stanza tutta per lui… lui che potrà avere le sue chiavi… e ci può
andare con la figlia, se vuole! “Ma lei mi garantisce che sarà una stanza in cui
si possano almeno ospitare degli amici… invitare qualcuno a cena?”. Mi sta
chiedendo se posso garantirgli che sua moglie è sempre lì dove lui l’ha
conosciuta e dove ancora lo ama. Gli dico che una stanza sua potrà usarla come
vuole. Mario inizia a sospettare la perdita e mi dice. “Ma mia figlia ha le sue
esigenze… è grande… forse non vorrà stare con me!” Per la prima volta gli ho
visto gli occhi lucidi. Se n’è accorta anche Teresa che era con me mentre
parlavamo insieme. Anche Teresa ha visto (ha sentito) e non ha sottolineato.
Entrambi ci siamo meravigliati perché non avremmo ancora immaginato le lacrime e
gli occhi lucidi da quell’uomo distinto e barbone, che l’amore per la sua donna
impone sia dignitoso e che vesta di lino bianco… stranamente mai sporco pur
vivendo sulle rive del lago. Dev’essere successo qualcosa… forse gli occhi
lucidi e, per la prima volta, mi sono scoperto a fargli una domanda in cui non
dovevo difendermi proponendogli solo soluzioni concrete che ristabilissero la
distanza, ma mi avvicinavo a lui guidato da una sottile curiosità verso la sua
zona aristocratica: “come fa per il bucato, Mario?” “Li lavo ogni giorno e li
stendo ad una cordicella appesa fra due alberi…!”
Karol appartiene alla folla dei migranti; è
giovane e bello, anche lui ha una certa aristocrazia nei modi. A lui Angie
chiede qualcosa che non ha e che non ha prezzo mentre lui cerca di imparare il
suo linguaggio: “tenero… è così che si dice?”. Quando Angie incontra Karol,
scopre di essere bisognosa a sua volta. Lascerà il suo datore di lavoro, quello
che può toccarle il culo se vuole, ma immediatamente dopo, Karol - di cui ha
conosciuto le carezze e l’amore - ridiventa la folla di migranti che ti
permetteranno di fare soldi. Karol come tutti gli oggetti è duplice: un bisogno
può essere curato dalla tenerezza, o evitato attraverso la concretezza. E’ la
stessa cosa che succede quando Angie conosce come vive un iraniano irregolare e
la sua famiglia “Se ti coinvolgi troppo sei fregata” dice Rose a Angie: “Se
fossi loro mi farebbe piacere aver trovato qualcuno come me… per questo lo
faccio!. E poi subito dopo Angie è pronta a tradire. Forse non è un tradimento..
il film ci dice che è una cosa normale! Un semplice cambio di modalità di
occuparsi di Sé: la tenerezza che immediatamente si ribalta nel cinismo quando
ti fai commuovere dagli occhi delle due bambine iraniane e quando li stai
facendo arrestare.
Il film parla di autenticità, di quello che
sei nonostante quello che vuoi essere. Non puoi decidere chi essere se non ti
incontri con un altro; è solo lo sguardo dell’altro che ti dice chi sei: “gli
altri sono lo specchio nel quale ci vediamo riflessi” (Kapuściński, 2006, 14).
Si tratta di riconoscere, come nei sogni e nell’inconscio, che le tue sensazioni
ti precedono e sono i tuoi vincoli con la tua terra, la cultura, la giornata che
vivi. Per questo Angie (ma anche Rose e tutti gli altri, …) deve vivere, ma
deve anche sopravvivere. Il film è duro e diretto: “Mi vergogno di quello che
hai fatto Angie… noi viviamo alle loro spalle e tu fai questo! Fammi scendere…
voglio scendere!”
“Cosa credi che abbia fatto… sto
semplicemente cercando posto per i nostri operai … loro escono e quelli
entrano…”. Mario mi torna in mente: mi porta il proprio dolore inscritto in una
categoria: l’altro che è la tua speranza e che ti abbandona. Ciò che conta non è
che l’altro sia buono e ti aiuti - questa forse è un’antica forma di violenza
innocente (Bollas) – ma solo che l’altro possa incuriosirsi per la tua giusta
rabbia, per gli abiti di lino incredibilmente bianchi e puliti e per i tuoi
occhi lucidi. Bontà è pietà sono spesso forme raffinate di violenza, anzi, di
falsità. Solidarietà e commozione ci riguardano profondamente, l’altro ne è solo
l’occasione. “Per la strada, non so perché, mi sentii invaso dalla bizzarra
sensazione di essere un impostore” (Conrad, 1899, 18).
Giuseppe Riefolo

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