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La
soluzione del canto “You
forget so easy” (Radiohead) La storia Jeanne e Simon,
gemelli, vivono in Canada. La madre, Nawal Marwan,
alla morte lascia loro due lettere in cui chiede di ricercare il proprio padre
ed un fratello che non sapevano di avere.
All’inizio solo Jeanne, giovane ricercatrice di Matematica, decide di partire
per Daresh, in Libano, dove la madre compì i suoi studi universitari e, pian
piano che la storia si dipana, arriverà in Libano anche Simon. I due gemelli
scopriranno di essere nati nelle torture che la madre, per motivi politici, subì
nel carcere di Kfar-Ryat dove cantava mentre
la portavano dal terribile Abu-Tareg e che, attraverso un piccolo tatuaggio al
tallone, padre, fratello e torturatore coincidono. di una ricerca Perché tua madre decide di restituirti la
tua storia proprio alla sua morte? Forse perché quella storia non poteva essere
raccontata da lei, ma lei la lascia come traccia per ritornare a lei: “la
morte non è mai la fine di una storia, restano sempre tracce”. Dal passato di
tua madre ti torna un piccolo crocifisso e un passaporto: il crocifisso dice chi
era e il passaporto dov’è stata. Sono tracce disturbanti che ti dicono che
molte cose non le conosci ancora. Sono tracce che aprono a “O” (Bion, 1965)
e che vengono perché portate da +L e +K. che sono la curiosità e la sorpresa
nel processo analitico. Simon ne è spaventato, mentre Jeanne ne coglie il
suggerimento vivo: “vostra madre non era matta – commenta il notaio - ve
l’assicuro! Certo, la situazione evidentemente è insolita… lo
riconosco!”. Tua madre, morendo, ti consegna un ultimo desiderio, ma poi
scopri che si tratta di un invito: “Seppellitemi senza bara, nuda e senza
preghiere, con il viso rivolto al suolo, spalle al mondo. Sulla mia tomba non ci
saranno lapidi e il mio nome non sarà inciso da nessuna parte. Nessun epitaffio
per chi non mantiene le promesse”. Poi, attraverso due lettere, due tracce da
dove iniziare la ricerca: Lettre a Jeanne:
“L’infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via
facilmente… questa busta è destinata a vostro padre: ritrovalo e consegnagli
la busta. Lettre a Simon: “Il notaio
ti consegnerà una busta… destinata a vostro fratello: ritrovalo e consegnagli
la busta”. Perché non svelare subito tutto e risparmiare sofferenze e
fatiche? Ovvio: ciò che vale la pena non è il contenuto, ma l’uso
che ciascuno di noi sa fare dei processi: poi si può arrivare dove ci pare, ma
devi sapere che tu sai fare un tuo uso
di quel processo di cui ti sono state suggerite solo le regole e alcune tracce.
Ma le regole siano chiare e le tracce siano solide: “ vi troverete di fronte a
problemi insolubili che vi porteranno sempre verso altri problemi altrettanto
insolubili. (…) Benvenuti nella matematica pura! Nel paese della
solitudine!” Tendere a “O” (Bion, 1965) è un
processo necessariamente in solitudine finalizzato proprio a risolvere lo stato
ontologico e antico di solitudine in cui siamo nati e in cui percorriamo la
vita. Per me non è una condizione triste, ma estremamente viva; è l’elan
vitale dei processi. Per questo Jeanne parte. Ma partire come e da dove?
L’incertezza può essere la tensione a “O”, o, al contrario,
l’insostenibile presenza della “non-cosa”. Nel film è la differenza che
all’inizio c’è fra Jeanne e Simon. Non si tratta di seppellire il cadavere
ed avere pace: “voglio seppellire mia madre normalmente, così per una volta
in quel casino di vita avrà fatto una cosa normale!”. Gli analisti sanno
cogliere nella tensione a “O” la vitalità di un processo infinito e non la
soluzione di un problema; anzi: la psicoanalisi ha proprio avuto questa
evoluzione: “mi interessano le modalità che consentono lo sviluppo della
funzione α del contenitore, dell’attitudine …a trasformare gli stati
protoemotivi e protosensoriali: a questo punto i contenuti potranno essere i più
diversi e non particolarmente in primo piano” (Ferro, 2010, 166). Non si
inizia mai da “O”, ma spesso “O” è saturato dalla Cosa:
“Ti serve un punto di partenza!”; “Mio padre è morto durante la guerra, a
Daresh”; “Questa è l’ incognita della equazione – commenta il
professore a Jeanne -. Non si comincia mai da una incognita, lo sai!”. .Non è
grave usare la Cosa: è un limite
necessario dei processi. Il problema – come gli analisti sanno – è che la Cosa, ad un certo punto, come la “Matematica pura”, debba
diventare incerta e proporre nuove dimensioni potenziali. E’ quello che nel
processo analitico da qualche tempo si riconosce come “dissociazione
creativa” (Bromberg, 2006), ovvero le potenzialità del processo che dialogano
continuamente con la tendenza alla stabilità del processo (Bollas,1987, li
chiamerebbe il pensabile e il conosciuto).
Nella potenzialità del processo c’è la tensione ad “O”, nella stabilità
c’è il grande merito dei “bugiardi” (Bion, 1974). Jeanne, quindi, parte da una foto e da una
piscina, ora ghiacciata e vuota che, nel ricordo che si avvia, diventa subito
calda e piena di voci e di gente. Il film ci dirà che quell’evoluzione del
ricordo è una promessa da raccogliere. Ora c’è la madre ed è una scena che
si potrà capire solo alla fine, quando tutto ritorna. Il film, alla fine
comincia proprio da quella piscina. …e
di donne che cantano. Il film mi ha fatto pensare che in
situazioni gravi cantare non è una modalità di resistere: cantare è
la soluzione. La musica è qualcosa di vivo che c’è e non è al posto di
un dolore, non serve a far dimenticare il dolore… a non pensarci: il dolore può
stare insieme al tuo canto ed entrambe le cose sono importanti. Non si tratta di
“rimuovere” o “negare”, ma di mettere a fianco del dolore la vita che
viene dal tuo canto. Questo il film lo dice più volte. Nawal comincia a cantare
alla propria pancia che cresce: pochi suoni, mentre le mani circondano la pancia
in una carezza ampia. Canta anche la nonna mentre segna il tallone: che
c’entra che si canti in momenti come questi? Il problema che gli analisti si
pongono è quanto ci sia di rimozione o quanto di giustapposizione. Il porre
è qualcosa che spesso, non piace agli analisti finché non si accorgono che,
comunque, si pone sempre qualcosa; semmai, il problema è cosa
e come: “sarebbe bene ricordarsi che la psicoanalisi è un mestiere
pericoloso qualsiasi cosa si faccia
– se non si fa niente o se si fa qualcosa”
(Bion, 1987, 193). Gli analisti
accettano sempre più che la cura sia anche giustapposizione creativa e non la
semplice interpretazione delle difese. Un analista che si è molto occupato di
psicosi in questi casi ha parlato di “proto-simbolo”:
“a differenza dello psicoterapeuta classico che ascolta, partecipa, spiega,
propone, lo psicoterapeuta diviene nei casi da me osservati vettore di immagini
simboliche le quali da un canto riprendono i temi della psicosi, ma dall’altro
li ribaltano in senso positivo, li continuano in senso progressivo, dualizzante,
li organizzano in contesti figurativi aperti a nuovi sviluppi” (Benedetti,
1993, 36). La posizione dell’analista è di partecipare ad un gioco creativo
che crei significato. Per questo cantare non è al posto del vuoto. La musica è
sussurrata, sottovoce, da Nawal e dalla nonna. Poi c’è Jeanne che accompagna
il suo viaggio con la musica dei Radiohead:
la stessa della prima scena in cui stanno rasando i bambini nell’orfanotrofio,
quella musica che ti dice: “You think you drive me crazy/ Come on, come
on/ You forget so easily/ You ought to know”. Ho sentito che la musica dei Radiohead
aveva il suono del canto di Nawal e della nonna,
forse perché aveva lo stesso senso. Nel carcere Nawal ricomincia a cantare,
quando non hai più niente … prigione di Kfar-Ryat: forse come quando è nato
tuo figlio... è una ninna nanna… sullo sfondo le urla. Questa volta ci sono
le parole. Canta mentre la portano al torturatore Abu-Tareg; non certo per
vincere la paura, ma per essere viva nonostante tutto! Forse non c’è
differenza! Uscendo dal cinema ho sentito che il film
era stato davvero una canzone, ed è quello che ti rimane di un film, direi di
una esperienza se quella esperienza ti fa pensare al canto. Peraltro, a dire il
vero, la donna non è che canti molto, ma il canto è la soluzione della storia.
Ho pensato ai cori delle tragedie greche che, non è vero che servissero a
commentare la storia come una voce fuori campo, ma i cori servivano a mettere
musica nella storia e, posso immaginare, permettevano che la tragedia si
presentasse come una possibilità densa ed intensa di vita. Infatti, amo i cori
quanto amo le cantilene; si tratta di una musica che segna il tempo e permette
che il tempo passi comunque e nonostante tutto. Ho sentito che le lettere, quelle lette alla
fine, a differenza che all’inizio, avevano musica. Le lettere parlano di amore
che è nella effettività dei legami: quindi puoi amare chi ti ha torturato,
perché soprattutto lui è nato dall’amore. Anche Jeanne e Simon , nonostante
la “puttana 72”, sono nati dall’amore, perché “ti amerò sempre,
nonostante tutto quello che puoi fare!”. Nonostante le vicende, è la storia
di una tragedia che, però ti ritorna leggera, direi armoniosa. Ora Simon e Jeanne si
tuffano in piscina quando sanno di essere nati in prigione. A questo punto,
anche Simon è alla ricerca. Ho pensato che l’acqua accompagna il percorso.
Forse perché si tratta di scoprire dove e come sei nato? Non lo so, ma mi piace
seguire le assonanze e i ritorni degli stessi oggetti. In un certo senso è
un’altra forma di cantilena: la canzone dell’intera storia, la ninna nanna
cantata da Nawal e quella ascoltata da Jeanne nelle
cuffiette che portano i Radiohead. “You
ought to know We ride tonight (Radiohead,
“You and whose army?”) |